mercoledì 21 settembre 2011

Dei sintomi e delle rose


Scriveva Gertrude Stein, in una frase rimasta come un epitaffio della sua concezione della scrittura letteraria, che “Una rosa è una rosa è una rosa...”, per ribadire come l'essenza di un'immagine si esprima attraverso la parola senza bisogno di ulteriori specificazioni, significazioni e rimandi simbolici, avendo già tutto in sè. La ripetizione del termine, e la ripetitività della frase, impongono al lettore la sua apparente nuda superficie di realtà: una rosa è una rosa e non altro, nient'altro che/da sé stessa, e tutte le sue eventuali significazioni ulteriori sono già contenute e latenti nella sua semplice immagine.
Da qui il 'monito' della Stein che lo scrittore dovrebbe esprimere nella sua opera nient'altro che la nuda realtà delle cose, evitando di appesantire e complicare con corto-circuiti semantici e culturali ciò che può essere comunicato a parole con una semplice immagine. La parabola steiniana può esserci utile per introdurre un concetto per certi versi analogo, ma di stretta pertinenza psicologica oltre che medica, quale quello di 'sintomo', che segnala innanzitutto il verificarsi di un cambiamento interno (fisico o psichico) e quindi rappresenta il primum movens di ogni discorso medicale-terapeutico. Intanto, la parola 'sintomo' deriva dal greco symptoma che si traduce alternativamente con 'evenienza', 'circostanza ' oppure 'cadere con, cadere assieme'.
L'accento è posto cioè sul fatto che il sintomo sia la risultante di un determinato processo di alterazione della normale sensazione di sé e del proprio corpo relativo ad uno stato patologico sottostante, quindi conseguenza di un complesso di fattori che trovano -attraverso il sintomo appunto – una loro peculiare espressione. Il sintomo, inoltre, è linguaggio proprio del paziente; il medico parla invece in termini di 'segni', qualora oggettivi i sintomi riferiti dal primo in un quadro patologico conosciuto.
Detto questo, possiamo tornare alla famosa frase. E se sostituissimo alla 'rosa' il 'sintomo'..? Avremmo allora che: “Un sintomo è un sintomo è un sintomo..”. Intanto, notiamo come la ripetizione del termine qui si adatti benissimo al carattere stesso del sintomo, sia esso fisico che psichico, quale manifestazione patologica di un qualche disfunzionamento relativo a tali entità. Chiuso in sè, irrazionale, enigmatico, il suo è un ripetersi cieco,sordo e muto , almeno finchè ad esso non venga donata la facoltà di traduzione 'in qualcosa dotato di un senso', di una logica, e gli venga riconosciuta una sua propria 'necessità intrinseca'... Perchè ogni sintomo ha un suo proprio senso, che è quello di una alterazione – sensibile, visibile, cioè interiormente ed esteriormente palese ad un qualche livello – di un supposto precedente stato di equilibrio, identificabile con una presunta 'normalità' dell'essere...
In questo senso, dunque, il sintomo incarna (alla lettera!) ed esprime quella parte della nostra soggettività che non possiamo definire propriamente nostra, ma semmai in qualche misura compartecipata con l'alterità costitutiva del nostro essere umani.
Il sintomo, come l'estraneo o lo straniero per un qualsiasi gruppo sociale autoctono, è considerato come l'intruso che mina un equilibrio interno, che rivendica a sé un'attenzione particolare e pone sotto una nuova luce il rapporto tra sé e sé, aprendovi una fessura – una parte malata e una parte sana – che rischia di divaricarsi oltremisura se non si ricorre al più presto all'intervento medico, che con perizia ricorrerà alla tecnica per estirparne la (supposta) 'causa'. Il sintomo è dunque – in questa visione cara alla medicina accademica e tradizionale – segnale di squilibrio e quindi errore da rimuovere, dopo averlo etichettato col nome di una specifica malattia e messo infine sotto naftalina! L'aver considerato alla stessa stregua il sintomo psichico e quello organico ha permesso ad una certa impostazione medicalistica in campo psicologico di perpetrare per il primo una concezione sostanzialmente repressiva ed escludente, come fosse appunto nient'altro che un'alterazione da rimuovere in fretta dello stato di 'normalità' psicofisica.
Un merito indubbio della psicoanalisi è invece di aver prodotto una svolta nel modo di considerare il sintomo e nell'approccio ad esso, che si caratterizza per l'attenzione al suo valore conoscitivo e alla sua intrinseca funzione comunicativa rispetto a tutte le alterità costitutive del Sè individuale. La terapia analitica mantiene 'aperto' il sintomo invece di rinchiuderlo anzitempo sotto l'etichetta di 'malattia', poiché presume che tale apertura consenta di dare finalmente voce a quelle parti di sé sofferenti cui non è stata mai data una adeguata possibilità di parola. L'assunzione dello status di malattia inoltre livella, uniforma, rende uguali e omologate tutte le possibili differenze individuali, che il sintomo tende invece a esprimere in modo unico e peculiare: con la malattia il soggetto perde cioè la sua propria cifra esistenziale, unica e irripetibile, per diventare una mera cifra 'statistica' nel campionario della patologia: un depresso, un nevrotico-ossessivo, uno psicotico... Au contraire, ogni sintomo rappresenta la possibilità di una nuova apertura di senso rispetto a sé stessi e non solo un campanello d'allarme da zittire in qualche modo; se saremo in grado di vedere in esso un potenziale conoscitivo ulteriore su noi stessi rispetto ai limiti del nostro vecchio orizzonte esistenziale, saremo allora anche in grado di vedere una rosa nei termini di una compiuta perfezione, di scorgervi il visibile e l'invisibile, come se tra l'immagine e la parola non vi fossero più barriere: “Una rosa è una rosa è una rosa...”

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