lunedì 22 novembre 2010

Lo straniero che è in noi


Homo sum, humani nihil a me alienum.
(Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo)
Publio Terenzio Afro, Heautontimoroumenos (165a.C.)



[...] Tutta l'arte del Novecento ha dato voce ad un intimo e lacerante grido di dolore, per ribadire attraverso le più svariate forme espressive la condizione dell'uomo moderno e le sue ferite mortali: l'alterità, l'estraneità, la vacuità, la perdita di senso, la solitudine, lo spaesamento. L'Urlo di Edvard Munch (1893) ne è forse la prima rappresentazione moderna attraverso il medium pittorico (così come, mezzo secolo dopo,le tele di Francis Bacon ritraggono una umanità deformata, mostruosa, in cui prevale la cifra di una estraneità aliena ed alienante). Il teatro pirandelliano e quello 'dell'assurdo'(Beckett, Ionesco), la letteratura esistenzialista di Sartre e Camus e, nel campo musicale, il progressivo utilizzo della dissonanza e poi l'avvento della musica dodecafonica, che ribalta canoni estetici millenari; tutte testimonianze di una drammatica emorragia di senso che ha minato agli albori del secolo appena trascorso la moderna coscienza umana. Opere divenute icone universali della condizione esistenziale dell'uomo moderno – o dovremmo oggi piuttosto definirlo 'post-moderno', in assonanza con una certa recente terminologia di matrice sociologica – e di quella insopprimibile vertigine della mente di fronte all'angoscia di una alterità che qui sembra proporsi come una assenza stessa di forma e di sostanza, un progressivo svuotamento di senso del mondo e delle cose fino ad esaltare la propria inconsistente corporeità e vacuità, in uno scenario piegato, alterato, distorto, quasi liquido – corrosivo - che minaccia di penetrare dal di fuori, invadere il 'soggetto', e infine discioglierlo, annullarlo [...]
In tale scenario la psicoanalisi si è posta fin dal principio, un secolo fa, l'arduo compito di accelerare quella svolta epistemica che potesse condurre l'individuo ad una visione integrale di se stesso, obiettiva e realistica, sganciata dai retaggi della trascendenza religiosa e filosofica, attraverso l'assunzione del discorso con l'altro-da-sè e con tutto quanto eccede rispetto ad un assetto identitario delimitato e racchiuso nella propria lucida coscienza morale e razionale. Essa si è proposta quale strumento conoscitivo ed operativo della ferita di senso dell'uomo moderno, impegnandosi di suturarla attraverso la “cura” del sintomo e con il ricorso ad una dia-logica in cui venisse privilegiata proprio la dimensione problematica ed estraniante del soggetto, quindi in certo senso -e qui sta la novità rispetto alle pur molteplici forme di trattamento psicologico-psichiatrico dell'epoca - facendo affidamento su quella regione interdetta della psiche che fino allora si era cercato soltanto di tenere a bada e di rendere meno devastante col ricorso alla farmacologia, a periodiche cure idroterapiche in stazioni termali e nei casi più gravi alla contenzione manicomiale.
Così, quando al principio del suo lavoro di psicoanalista, presta attenzione ai 'vaneggiamenti'delle isteriche oltre che alle loro mirabolanti contorsioni 'ad arco riflesso' osservate nelle cliniche psichiatriche del tempo; quando pubblica L'interpretazione dei sogni (1899) e cede completamente il campo all'immagine onirica – l'alterità per eccellenza nel pensiero positivista di fine Ottocento- e alla sua potente capacità espressiva, tematica che sarà poi ripresa dai movimenti dadaista e surrealista degli anni Venti; oppure quando, ne Il perturbante (1919), individua nell'Unheimlich quel sentimento di attonita inquietudine di fronte al'non familiare', Freud sta dando voce e corpo a questa oscura dimensione parallela della psiche che si manifesta attraverso le pieghe occulte della ragione e della vita di veglia.
A proposito di quest'ultimo scritto, dove le dimensione dell'alterità e della estraneità dell'inconscio e del rimosso emergono in maniera nuova ed originale vestendo i panni del 'doppio' e del 'sosia', il carattere perturbante (unheimlich) dell'esperienza attuale è strettamente associato alla sua pregressa familiarità (heimlicheit) che ha però nel tempo subito un processo di rimozione, fino al punto di perdere l'aggancio con la memoria cosciente e la tonalità intima e rassicurante del già noto. Il risultato, come sappiamo, è una esperienza ambigua ed inquietante, di turbamento soggettivo per la difficoltà o l'impossibilità di codificare affettivamente lo stimolo esterno (oggetto, situazione o persona) dotato di una tale caratteristica.
Questa ambivalenza perturbante, in cui il fondamentale sentimento di una chiara identità soggettiva viene momentaneamente oscurato, si presta infatti alla perfezione nel delineare in maniera viva e palpitante il profilo di una dimensione inconscia che si esprime attraverso una intima estraneità, di una alterità intrapsichica e 'strutturale' che è specchio di ogni successiva attribuzione di alterità verso il mondo esterno e verso gli altri. E tale meccanismo è il prototipo – diremmo – di quell'atteggiamento fondativo della coscienza razionale che consiste nella distinzione tra un dentro e un fuori, tra un me e un non-me, tra soggetto e oggetto.
Anche C.G.Jung introduce nelle sue teorizzazioni il concetto di una alterità costitutiva della psiche – che può essere in parte progressivamente integrata in un processo di 'individuazione' – distinguendola in inconscio personale e collettivo. La sua poetica ed alquanto incisiva definizione di “Ombra” ben rappresenta in termini archetipici la dimensione inconscia personale caratterizzata dalla somma delle sue 'negatività' costitutive (rappresentazioni rimosse, elementi sfavorevoli e funzioni psichiche non sviluppate della personalità).
Possiamo quindi pensare alla psicoanalisi nei termini di una scienza della alterità – se di scienza si può parlare, oggi che le declinazioni della 'verità narrativa' e del post-costruttivismo hanno progressivamente spostato il baricentro psicoanalitico verso il piano ermeneutico, oppure se sia meglio considerarla al pari di una professione di fede in chiave laica – i cui cardini concettuali, da sempre, si sono primariamente articolati sul binomio identità/alterità e sul riconoscimento della funzione centrale di legame svolta dalla coscienza nel tentativo di una migliore integrazione possibile dei contenuti inconsci.
Dal registro interno a quello esterno la funzione psicoanalitica rimane intatta, in quanto alla base di qualsiasi processo conoscitivo si riscontra un rapporto e, se vogliamo, un incontro di identità tra loro diverse, nella accezione ampia del termine (quindi non solo soggettive, ma culturali, sociali, etc..) all'interno di una peculiare esperienza emotiva.
Il tema portante dell'identità e del suo rapporto con l'alterità si snoda attraverso tutto il percorso della riflessione psicoanalitica per approdare alla metafora bioniana del 'cambiamento catastrofico', cioè dell'implosione di un precedente assetto del pensiero che può generare nuove forme di pensabilità sia soggettive che epistemologiche o scientifiche. Momento cruciale di tale passaggio è la possibilità per la mente di tollerare il disorientamento e il disancoramento da posizioni consolidate nel tempo ma ormai isterilite e prive di una prospettiva 'aperta' e interagente col mondo circostante, e al contempo una spinta autenticamente conoscitiva che consenta di accostarsi al'altro-da-sè ma soprattutto all'Altro che risiede in noi [...]



Il presente è un estratto dal saggio breve: Identità e/è Alterità, di prossima pubblicazione nella sezione 'Scritti' del sito www.fernandomaddalena.it

Nella foto in alto: Francis Bacon, Portrait of Michel Leiris (1976)



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